Non credere a un poeta

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No, non credere a un poeta.

Non credere all’amore di un poeta,

stella cadente in un cielo d’agosto.

Non credere al dolore di un poeta,

onde di schiuma in un oceano mosso.

Non credere alla gioia di un poeta,

coriandoli lanciati a ricoprire un fosso.

Non credere alla morte di un poeta,

o sarà eterno, oppure era già morto.

No, non credere…

Via della povertà

(chiedendo scusa a Bob Dylan e a Faber)

Dio è furioso e fuma innervosito

osservando dall’alto questa terra

si chiede se anche lui abbia sbagliato

nell’insegnare all’uomo a far la guerra.

Lo aveva preso come un diversivo

come la peste ed altre cose ancora

per rompere la noia dell’eterno

ma forse era stato un po’ impulsivo

e ora tutto sta andando alla malora

trasformando il paradiso in un inferno.

Ormai c’è gente che proprio nel suo nome

commette le peggiori atrocità

rivendicando a colpi di cannone

una ormai dimenticata identità.

Islamici ebrei e anche cristiani

dimentichi che Dio è sempre uno solo

si dilettano in personali interpretazioni

colorando di sangue tutto il suolo.

Così a pagare son sempre gli innocenti

che si ritrovano fra le varie fazioni

che siano coi vinti o coi perdenti

partecipano con morti e con mutilazioni.

E Gesù cristo affacciato al balcone

osservando questa nostra civiltà

scuote la testa con disapprovazione

raccoglie la sua croce e se ne va

recriminando di aver perso l’occasione

di aver posto fine a tutto quanto tempo fa,

lasciando abbandonata sul balcone

oramai in frammenti, la sua dignità.

Allontanandosi con disaffezione

da via della povertà.

Setantasett

Ghe chi vegn

e ghè chi va

chi partis,

chi resta a ca,

questu mound

a le fa inscì,

prima o poeu,

tucherà a mi,

ghe nisun

che l’è eternu

prima o poeu

riva l’invernu.

Setantasett,

un ann puseè

anca vurè se po no

turna indreè,

cume disevi

ul mund l’è fa inscì

dunca cuntentes

de ves ammo chi.

Settantasette – C’è chi viene/c’è chi va/chi parte e chi resta a casa/ questo mondo/ è fatto così/prima o poi/ toccherà a me/ non c’è nessuno/ che è eterno/prima o poi/arriva l’inverno/Settantasette/ un anno in più/anche volendo non si può/tornare indietro/come dicevo/ il mondo è fatto così/quindi accontentati/di essere ancora qui.

Setantases e… (dialettale)


Setantases e…
par dumò ier
che curevi par i praa
saltavi i scies,
rampegavi sura i piant
a ciapà scires.
Quanti dì, quanti mes,
quanti ann
quantu temp perdù
a cour dree ai tusan,
Occ pien de strad,
de paes, de gent.
Gent impurtanta
o che cuntava gnent,
amis perdù
che ul temp a menà via
che me impienisen
anca mò de nustalgia.
E mo su chi col cò
pien di rop che ou fa
‘n quei vuna giusta,
ma anca trop sbaglià,
Setantases e..
par dumò ier
i prà in luntan
e a ghe pu i scires
sun chi dumò
con tucc i me bisogn
i me ricordi
ma anca mo cunt i me sogn.

Settantasei e…

Settanta sei e,,/Sembra solo ieri/che correvo per i prati/saltavo le siepi/mi arrampicavo sugli alberi/a cogliere ciliegie./Quanti giorni, quanti mesi,/quanti anni/quanto tempo perso/a rincorrere ragazze./Occhi pieni di strade,/ di paesi, di gente/ Gente importante o che contava niente/amici persi/che il tempo ha portato via/ma che mi riempiono/ancora di nostalgia. E ora son qui con la testa/colma delle cose che ho fatto,/qualcuna giusta,/ma anche troppe sbagliate: Settantasei e… / sembra solo ieri/ i prati sono lontani,/e non ci sono più le ciliegie/ sono qui soltanto/ con tuti i miei bisogni/ tanti ricordi/ ma ancora coi miei sogni.

Storie di quasi storia, insomma favole – 2

ENZO JANNACCI

Una canzone quando capita.

Quante Vincenzine hanno varcato i cancelli di migliaia di fabbriche, quante vi hanno trascorso una vita intera, piegare su telai o su specole, giorno su giorno a volte persino la domenica, senza conoscere riposo e senza ferie, quante sono entrate in quelle fabbriche ancora bambine con gli zoccoli ai piedi magari dovendosi alzare alle 4 o alle 5 del mattino per raggiungere a piedi le fabbrica distante chilometri, con le scarpe in o gli zoccoli in mano, per non consumarli e ripetere il percorso inverso giorno dopo giorno col sole la pioggia la neve il gelo in un tempo infinito che non cessava mai di essere uguale..

Vincenzina davanti la fabbrica

Vincenzina il foulard non si mette più…

Ci sono state anche altre transumanze meno appariscenti, invisibili quasi nascoste di pochi km da nord a nord, dalle campagne alla fabbrica, dalla schiavitù alla tirannia, e si perché a quei tempi non è che le cose cambiassero di molto, ma era necessità del paese per la ricostruzione, della povera gente per arricchire, no non siamo ridicoli, solo per portare qualche cosa in tavola, ad arricchire erano comunque sempre gli altri, quelli che i soldi li aveva già da prima. Qui il processo era iniziato da tempo, quasi in concomitanza con lo scoppio della prima guerra mondiale, le filature e le tessiture avevano bisogno di mano d’opera e i contadini di soldi. E sì perché i contadini lavoravano la terra e per lavorare la terra avevano bisogno di braccia e per avere delle braccia facevano figli, per questo le famiglie erano molto numerose e occorreva molto per mantenerle, e poi c’era un problema, la terra, quella terra che lavoravano, mica era loro era del “padrone”. La terra da sempre apparteneva a pochi privilegiati, i latifondisti, privilegiati che non si sognavano nemmeno di occuparsene, non assumevano dipendenti per lavorarla, coltivarla o adibirla a pascolo, nossignori, loro la “affittavano” ai contadini pretendendo in cambio una percentuale sul raccolto e sull’allevamento, la maggior parte quasi sempre e ai contadini rimaneva ben poco, considerando anche che parte di quel poco finiva per riempire la dispensa del curato di turno. Fatto sta che la migrazione dalla campagna alle città, dall’agricoltura alla fabbrica avvenne come un fatto naturale, e iniziarono dalle proprio le donne quelle che nei campi davano meno supporto vennero inviate dalle famiglie a lavorare nelle fabbriche per avere anche quel sostengo che avrebbe permesso alla famiglia di sopravvivere, dal lunedì al sabato, per 10, 12 ore al giorno poi la domenica tornavano nei campi, e abbandonarono il foulard utile per tenere raccolti i capelli nei campi, ma fastidioso in fabbrica. Era iniziato il cambiamento dalla campagna alla città dalla chiesa al sindacato, dall’era contadina a quella industriale, stava per iniziare il boom economico, si fa per dire…

Vincenzina vuol bene alla fabbrica

e non sa che la vita giù in fabbrica

non c’è e se c’è dové

lalalà, lalalà, lalalà lala là

Storie di quasi storia, insomma favole.

ENZO JANNACCI

Una canzone quando capita.

Nazional popolare.

Enzo Jannacci non era solo un cantante, un cantautore, uno show man, no, Enzo Jannacci era anche un narratore, nelle sue canzoni raccontava con aria stralunata e una sottile ironia di quell’Italia del boom economico, quell’Italia uscita dalla guerra e ancora con le pezze al culo, che molti si rifiutavano di vedere ne tanto meno di raccontare. Così riempiva le sue canzoni di malinconia di sfaccettature di vita anonima, dimenticata, con grande amore e sagacia e raccontava quelle storie di serie “b” che molti, tutti si rifiutavano di raccontare. Proprio per questo il “nazional popolare” che non vuole essere una definizione riduttiva ma un elogio alla sua grande capacità di saper cogliere emozioni di vita nelle strade, fra la gente, nei fatti di tutti i giorni il più delle volte ignorate.

Soldato Nencini

Soldato Nencini, soldato d’Italia

semianalfabeta, schedato: “terrone”,

l’han messo a Alessandria perché c’è più nebbia...

L’inizio di una storia banale ironica come tutte le sue canzoni, ma carica di tristezza e malinconia ma poi… siamo sicuri che sia proprio così “banale”?

L’Italia era appena uscita uscita da una guerra disastrosa, a voler considerare bene le cose da due guerre disastrose, la prima che aveva cancellato buona parte della popolazione maschile del paese, la seconda dopo alcune campagne coloniali non proprio esaltanti, aveva provveduto a dare il colpo di grazia ad un paese già in difficoltà, piegandolo sulle ginocchia. Da poco era iniziata la faticosa ricostruzione, il nord si stava risollevando, fabbriche cantieri sorgevano un po’ ovunque, il sud però come sempre, a causa delle pessime gestioni, sia precedenti che quelle di quegli anni arrancava faticosamente. I politici se ne resero conto, occorreva fare qualche cosa, e giunsero alla brillante soluzione, investire nella ricostruzione e nell’ammodernamento di quelle parte del paese?

No e quando mai, ci volevano i soldi e i soldi servivano a loro, quindi? Soluzione lapalissiana, spedire al nord per il servizio militare i giovani del sud, così avrebbero cominciato ad ambientarsi conoscere i posti, vedere le opportunità che offrivano e poi tornarci finita la ferma per cercare lavoro, e spedire i giovani del nord al sud, beh qui le ragioni erano piuttosto nebulose o di semplice necessità, considerando il fatto che al nord non c’era più posto e poi avrebbero potuto tornarci in un lontano futuro magari come turisti (più tardi avrebbero operato con lo stesso metodo anche con i dipendenti pubblici ma con una direzione a senso unico). L’operazione riuscì secondo l’opinione di alcuni, meno secondo le opinioni di altri e di certo non servì a risollevare il sud dalle sue precarie condizioni. Sta di fatto che dopo alcuni anni le migrazioni da nord a sud presero proporzioni gigantesche, i posti di lavoro disponibili nelle fabbriche, la richiesta di mano d’opera, il sogno di una vita migliore, spinse molti meridionali a prendere la via del nord, privando il sud di quei lavoratori che ben indirizzati avrebbero potuto dare un contributo notevole alla crescita di quelle regioni. Fu così che iniziò una transumanza a senso unico dal sud al nord, come un gregge in movimento continuo, solo che ad accompagnarne e a dirigere il gregge non c’erano cani da pastore, ma bensì lupi, travestiti da agnelli. Beh se vogliano essere onesti qualche buon cane da pastore a accompagnare quel gregge c’è anche stato. Ha invaso il mondo con le sue macchine da scrivere e la sua industria era un fiore all’occhiello del paese un esempio al mondo per efficienza e tecnologia ma non solo, anche di uguaglianza, umanità e democrazia. Ma, hai detto era, poi cose è successo? La storia la conoscete tutti poi… poi è arrivato l’ingegnere. Uno dei lupi? No, un parente prossimo, della famiglia degli sciacalli.

Chiedo umilmente scusa ai canidi e agli ovini per l’irriverente accostamento.

In un tempo sbagliato

Un giglio di prato,

fiorito

in un tempo sbagliato

ed un sole sorto

quando

non era aspettato,

con la luna iniziò

un gran litigio

sopra ad un mare agitato.

Un barcone

di schiavi affollato

muove la prora

in favore di vento

dimenticando

la poppa nei ricordi

inseguendo speranze

seppellendo i morti.

Alla ricerca di un lido,

di un luogo dove stare

In un tempo sbagliato

fra le onde

sul mare.

Il volo

L’uccello vola,
vola nel cielo sereno.
Nel cielo sereno
felice, l’uccello
intona il canto.
Canta dentro noi
nel nostro cielo
vola,
l’uccello in noi,
felice nel suo volo,
cantando.
Sino a che sbatte
contro un grigio muro,
l’invisibile muro
delle nostre paure e cade.
Cade l’uccello,
nel becco spezzato
giace,
l’ultima nota del suo canto.
Cade,
alla base del muro
su altri uccelli
che da tempo giacciono
feriti, muti,
il becco spezzato.
Quanti altri uccelli
dentro noi hanno volato,
quanti,
hanno trovato quel muro
che gli ha rotto il canto,
quanti voleranno ancora
per cadere poi
alla base del muro.
Su quel mucchio informe
di dolore muto
anche l’ultimo uccello
cadrà,
con il becco spezzato.

Il silenzio al silenzio

Smettete di parlare.
Lasciate il silenzio
al silenzio.
Non accendete
abbaglianti fari
lasciate il buio
al buio.
Non bruciate nulla
non solo calde fiamme
si alzeranno,
sopra di queste fumo.
Lasciate che la verità
sia vera,
non nascondete la vita
nell’ipocrisia.
Lasciate la luce alla luce,
il buio al buio.
Il silenzio al silenzio
e ascoltate,
ascoltatevi
in silenzio,
mentre vi parlate.

Bruchi o farfalle

Da quale mare
da quale spazio
in quale tempo
giungemmo noi.
A quale lido
a quale spiaggia
in quale porto.
Quale
la nostra strada
quale il nostro
definitivo approdo.
Generazioni perse,
prigioniere dello spazio,
assurdi inventori
di un tempo consumato
da padre in figlio
da figlio in padre.
Scordato
il lontano inizio,
persi nella notte
di un tempo uguale,
noi mutevoli.
Quale il nostro fine?
Noi mutevoli,
ma eterni come il tempo,
chi siamo?
Miseri resti di dei
non più immortali?
Bruchi, crisalidi
di inimmaginabili farfalle?
L’assurdo gioco
di un capriccioso dio?
Quale fu l’inizio?
Quale sarà
la fine?