Settantasette – C’è chi viene/c’è chi va/chi parte e chi resta a casa/ questo mondo/ è fatto così/prima o poi/ toccherà a me/ non c’è nessuno/ che è eterno/prima o poi/arriva l’inverno/Settantasette/ un anno in più/anche volendo non si può/tornare indietro/come dicevo/ il mondo è fatto così/quindi accontentati/di essere ancora qui.
Setantases e… par dumò ier che curevi par i praa saltavi i scies, rampegavi sura i piant a ciapà scires. Quanti dì, quanti mes, quanti ann quantu temp perdù acour dree ai tusan, Occ pien de strad, de paes, de gent. Gent impurtanta o che cuntava gnent, amis perdù che ul temp a menà via che me impienisen anca mò de nustalgia. E mo su chi col cò pien di rop che ou fa ‘n quei vuna giusta, ma anca trop sbaglià, Setantases e.. par dumò ier i prà in luntan e a ghe pu i scires sun chi dumò con tucc i me bisogn i me ricordi ma anca mo cunt i me sogn.
Settantasei e…
Settanta sei e,,/Sembra solo ieri/che correvo per i prati/saltavo le siepi/mi arrampicavo sugli alberi/a cogliere ciliegie./Quanti giorni, quanti mesi,/quanti anni/quanto tempo perso/a rincorrere ragazze./Occhi pieni di strade,/ di paesi, di gente/ Gente importante o che contava niente/amici persi/che il tempo ha portato via/ma che mi riempiono/ancora di nostalgia. E ora son qui con la testa/colma delle cose che ho fatto,/qualcuna giusta,/ma anche troppe sbagliate: Settantasei e… / sembra solo ieri/ i prati sono lontani,/e non ci sono più le ciliegie/ sono qui soltanto/ con tuti i miei bisogni/ tanti ricordi/ ma ancora coi miei sogni.
Quante Vincenzine hanno varcato i cancelli di migliaia di fabbriche, quante vi hanno trascorso una vita intera, piegare su telai o su specole, giorno su giorno a volte persino la domenica, senza conoscere riposo e senza ferie, quante sono entrate in quelle fabbriche ancora bambine con gli zoccoli ai piedi magari dovendosi alzare alle 4 o alle 5 del mattino per raggiungere a piedi le fabbrica distante chilometri, con le scarpe in o gli zoccoli in mano, per non consumarli e ripetere il percorso inverso giorno dopo giorno col sole la pioggia la neve il gelo in un tempo infinito che non cessava mai di essere uguale..
Vincenzina davanti la fabbrica
Vincenzina il foulard non si mette più…
Ci sono state anche altre transumanze meno appariscenti, invisibili quasi nascoste di pochi km da nord a nord, dalle campagne alla fabbrica, dalla schiavitù alla tirannia, e si perché a quei tempi non è che le cose cambiassero di molto, ma era necessità del paese per la ricostruzione, della povera gente per arricchire, no non siamo ridicoli, solo per portare qualche cosa in tavola, ad arricchire erano comunque sempre gli altri, quelli che i soldi li aveva già da prima. Qui il processo era iniziato da tempo, quasi in concomitanza con lo scoppio della prima guerra mondiale, le filature e le tessiture avevano bisogno di mano d’opera e i contadini di soldi. E sì perché i contadini lavoravano la terra e per lavorare la terra avevano bisogno di braccia e per avere delle braccia facevano figli, per questo le famiglie erano molto numerose e occorreva molto per mantenerle, e poi c’era un problema, la terra, quella terra che lavoravano, mica era loro era del “padrone”. La terra da sempre apparteneva a pochi privilegiati, i latifondisti, privilegiati che non si sognavano nemmeno di occuparsene, non assumevano dipendenti per lavorarla, coltivarla o adibirla a pascolo, nossignori, loro la “affittavano” ai contadini pretendendo in cambio una percentuale sul raccolto e sull’allevamento, la maggior parte quasi sempre e ai contadini rimaneva ben poco, considerando anche che parte di quel poco finiva per riempire la dispensa del curato di turno. Fatto sta che la migrazione dalla campagna alle città, dall’agricoltura alla fabbrica avvenne come un fatto naturale, e iniziarono dalle proprio le donne quelle che nei campi davano meno supporto vennero inviate dalle famiglie a lavorare nelle fabbriche per avere anche quel sostengo che avrebbe permesso alla famiglia di sopravvivere, dal lunedì al sabato, per 10, 12 ore al giorno poi la domenica tornavano nei campi, e abbandonarono il foulard utile per tenere raccolti i capelli nei campi, ma fastidioso in fabbrica. Era iniziato il cambiamento dalla campagna alla città dalla chiesa al sindacato, dall’era contadina a quella industriale, stava per iniziare il boom economico, si fa per dire…
Enzo Jannacci non era solo un cantante, un cantautore, uno show man, no, Enzo Jannacci era anche un narratore, nelle sue canzoni raccontava con aria stralunata e una sottile ironia di quell’Italia del boom economico, quell’Italia uscita dalla guerra e ancora con le pezze al culo, che molti si rifiutavano di vedere ne tanto meno di raccontare. Così riempiva le sue canzoni di malinconia di sfaccettature di vita anonima, dimenticata, con grande amore e sagacia e raccontava quelle storie di serie “b” che molti, tutti si rifiutavano di raccontare. Proprio per questo il “nazional popolare” che non vuole essere una definizione riduttiva ma un elogio alla sua grande capacità di saper cogliere emozioni di vita nelle strade, fra la gente, nei fatti di tutti i giorni il più delle volte ignorate.
Soldato Nencini
Soldato Nencini, soldato d’Italia
semianalfabeta, schedato: “terrone”,
l’han messo a Alessandria perché c’è più nebbia...
L’inizio di una storia banale ironica come tutte le sue canzoni, ma carica di tristezza e malinconia ma poi… siamo sicuri che sia proprio così “banale”?
L’Italia era appena uscita uscita da una guerra disastrosa, a voler considerare bene le cose da due guerre disastrose, la prima che aveva cancellato buona parte della popolazione maschile del paese, la seconda dopo alcune campagne coloniali non proprio esaltanti, aveva provveduto a dare il colpo di grazia ad un paese già in difficoltà, piegandolo sulle ginocchia. Da poco era iniziata la faticosa ricostruzione, il nord si stava risollevando, fabbriche cantieri sorgevano un po’ ovunque, il sud però come sempre, a causa delle pessime gestioni, sia precedenti che quelle di quegli anni arrancava faticosamente. I politici se ne resero conto, occorreva fare qualche cosa, e giunsero alla brillante soluzione, investire nella ricostruzione e nell’ammodernamento di quelle parte del paese?
No e quando mai, ci volevano i soldi e i soldi servivano a loro, quindi? Soluzione lapalissiana, spedire al nord per il servizio militare i giovani del sud, così avrebbero cominciato ad ambientarsi conoscere i posti, vedere le opportunità che offrivano e poi tornarci finita la ferma per cercare lavoro, e spedire i giovani del nord al sud, beh qui le ragioni erano piuttosto nebulose o di semplice necessità, considerando il fatto che al nord non c’era più posto e poi avrebbero potuto tornarci in un lontano futuro magari come turisti (più tardi avrebbero operato con lo stesso metodo anche con i dipendenti pubblici ma con una direzione a senso unico). L’operazione riuscì secondo l’opinione di alcuni, meno secondo le opinioni di altri e di certo non servì a risollevare il sud dalle sue precarie condizioni. Sta di fatto che dopo alcuni anni le migrazioni da nord a sud presero proporzioni gigantesche, i posti di lavoro disponibili nelle fabbriche, la richiesta di mano d’opera, il sogno di una vita migliore, spinse molti meridionali a prendere la via del nord, privando il sud di quei lavoratori che ben indirizzati avrebbero potuto dare un contributo notevole alla crescita di quelle regioni. Fu così che iniziò una transumanza a senso unico dal sud al nord, come un gregge in movimento continuo, solo che ad accompagnarne e a dirigere il gregge non c’erano cani da pastore, ma bensì lupi, travestiti da agnelli. Beh se vogliano essere onesti qualche buon cane da pastore a accompagnare quel gregge c’è anche stato. Ha invaso il mondo con le sue macchine da scrivere e la sua industria era un fiore all’occhiello del paese un esempio al mondo per efficienza e tecnologia ma non solo, anche di uguaglianza, umanità e democrazia. Ma, hai detto era, poi cose è successo? La storia la conoscete tutti poi… poi è arrivato l’ingegnere. Uno dei lupi? No, un parente prossimo, della famiglia degli sciacalli.
Chiedo umilmente scusa ai canidi e agli ovini per l’irriverente accostamento.
L’uccello vola, vola nel cielo sereno. Nel cielo sereno felice, l’uccello intona il canto. Canta dentro noi nel nostro cielo vola, l’uccello in noi, felice nel suo volo, cantando. Sino a che sbatte contro un grigio muro, l’invisibile muro delle nostre paure e cade. Cade l’uccello, nel becco spezzato giace, l’ultima nota del suo canto. Cade, alla base del muro su altri uccelli che da tempo giacciono feriti, muti, il becco spezzato. Quanti altri uccelli dentro noi hanno volato, quanti, hanno trovato quel muro che gli ha rotto il canto, quanti voleranno ancora per cadere poi alla base del muro. Su quel mucchio informe di dolore muto anche l’ultimo uccello cadrà, con il becco spezzato.
Smettete di parlare. Lasciate il silenzio al silenzio. Non accendete abbaglianti fari lasciate il buio al buio. Non bruciate nulla non solo calde fiamme si alzeranno, sopra di queste fumo. Lasciate che la verità sia vera, non nascondete la vita nell’ipocrisia. Lasciate la luce alla luce, il buio al buio. Il silenzio al silenzio e ascoltate, ascoltatevi in silenzio, mentre vi parlate.
Da quale mare da quale spazio in quale tempo giungemmo noi. A quale lido a quale spiaggia in quale porto. Quale la nostra strada quale il nostro definitivo approdo. Generazioni perse, prigioniere dello spazio, assurdi inventori di un tempo consumato da padre in figlio da figlio in padre. Scordato il lontano inizio, persi nella notte di un tempo uguale, noi mutevoli. Quale il nostro fine? Noi mutevoli, ma eterni come il tempo, chi siamo? Miseri resti di dei non più immortali? Bruchi, crisalidi di inimmaginabili farfalle? L’assurdo gioco di un capriccioso dio? Quale fu l’inizio? Quale sarà la fine?